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«Il Signore si pentì»

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«Il Signore si pentì»

La mutabilità misericordiosa di Dio e la responsabilità della preghiera universale

Viviamo tempi complessi, segnati da incertezze e divisioni, tempi in cui la speranza sembra vacillare e la tentazione di rinchiuderci nel proprio piccolo mondo si fa forte. Eppure, proprio nelle pieghe delle narrazioni bibliche più antiche possiamo trovare chiavi di lettura sorprendenti per il nostro oggi, capaci di riaccendere la speranza e richiamarci a una responsabilità più ampia. Una di queste narrazioni, carica di dramma e di rivelazione, si trova nel capitolo 32 del Libro dell'Esodo.

In Es 32,7-10, la scena è potente: Mosè è sul monte Sinai, avvolto dalla nube della presenza divina, per ricevere le tavole dell'Alleanza, sigillo del patto d'amore tra Dio e il suo popolo. Ma ai piedi del monte, l'attesa si fa insopportabile. Il popolo, liberato dalla schiavitù d'Egitto con prodigi potenti, vacilla. La paura del vuoto, l'assenza visibile del mediatore, la difficoltà di fidarsi di un Dio invisibile spingono Israele a "fabbricarsi" un dio tangibile, un vitello d'oro, attribuendo a quest'idolo l'opera della liberazione (Es 32,4). Dio vede e la sua reazione è tremenda: "Ho osservato questo popolo – dice a Mosè – ecco, è un popolo dalla dura cervice. Ora lascia che la mia ira si accenda contro di loro e li divori! Di te invece farò una grande nazione" (Es 32,9-10). Sembra la fine. Eppure, proprio qui si apre uno spiraglio inatteso, un dialogo che cambierà le sorti annunciate.

Il Vitello d'Oro: Idolatria Ieri e Oggi

Il peccato di Israele non è relegato a un passato lontano. È lo specchio di una tentazione perenne: quella di costruirci idoli. L'idolatria non è solo adorare statue; è sostituire il Dio vivente con surrogati creati dalle nostre mani e dalle nostre menti, ai quali chiediamo sicurezza, senso e salvezza. Nasce dalla paura, dall'incapacità di attendere nella fede, dal bisogno di controllare il divino. Oggi, i vitelli d'oro assumono forme diverse, forse più subdole: possono essere le nostre convinzioni ideologiche o personali erette a dogma, che ci chiudono al dubbio e al dialogo; possono essere le abitudini e le consuetudini consolidate, quel "si è sempre fatto così" che soffoca la novità dello Spirito; possono essere i tradizionalismi che bloccano il cammino della comunità, trasformando la fede in un museo anziché in una via; può essere la chiusura ostinata a chi percepiamo come "altro" o "diverso", dimenticando l'unica famiglia umana amata da Dio. Ogni volta che anteponiamo una nostra costruzione – mentale, materiale, sociale – alla fiducia nel Dio imprevedibile ma fedele, stiamo fondendo il nostro vitello d'oro.

L'Uomo che "Addolcisce" il Volto di Dio: L'Intercessione di Mosè

Di fronte all'ira divina e all'idolatria del popolo, emerge la figura straordinaria di Mosè. Egli non accetta passivamente la pur comprensibile reazione di Dio, né si lascia sedurre dalla promessa di una salvezza personale ("Di te farò una grande nazione"). Mosè si erge come intercessore. Il testo ebraico usa un'espressione suggestiva per descrivere la sua preghiera, letteralmente "rese dolce/propizio il volto del Signore" (Es 32,11). Non una semplice richiesta, ma un tentativo accorato, intimo, quasi audace, di placare Dio, di far appello alla sua memoria, alla sua fedeltà, al suo onore. Mosè non scusa il peccato del popolo, ma si mette in mezzo, si fa carico delle sue conseguenze. La sua identificazione con Israele peccatore raggiungerà il culmine poco dopo, quando dirà a Dio: "Se tu perdonassi il loro peccato... altrimenti, cancellami dal tuo libro che hai scritto!" (Es 32,32). Un amore e una responsabilità che non conoscono confini personali, un modello potente di leadership e di preghiera che si fa carico dell'altro.

Il Mistero di un Dio che "si Pente"

E qui avviene l'impensabile: "Il Signore si pentì del male che aveva minacciato di fare al suo popolo" (Es 32,14). Questo "pentimento" divino può suscitare inquietudine e perfino scandalo. Dio cambia idea? È forse incostante, imperfetto? La teologia, riflettendo sulla Scrittura, ci aiuta a comprendere più a fondo. Il verbo ebraico nacham non indica un rimorso per un errore commesso (come nel pentimento umano), ma un cambiamento nel proposito annunciato, una riconsiderazione di fronte a una nuova situazione, come appunto l'intercessione accorata o la conversione umana. La Bibbia presenta diverse volte questa apparente "mutabilità" divina: lo vediamo quando Dio ascolta Abramo intercedere per Sodoma (Gen 18), quando ritira il castigo contro Ninive nel libro di Giona (Gn 3,10), o quando manifesta dolore per aver creato l'uomo prima del diluvio (Gn 6,6). La "mutevolezza" di Dio non è segno di imperfezione, ma espressione della sua perfezione come Dio personale, vivo e in relazione.

La natura profonda di Dio – Amore, Fedeltà, Misericordia – è immutabile. Ma proprio perché è Amore libero, Egli entra in un dialogo autentico con la sua creatura, risponde, si lascia "toccare". Non è un burattinaio impassibile, ma un Padre coinvolto.

Dalla Preghiera di Mosè alla Responsabilità Universale in Cristo

L'intercessione di Mosè è una finestra spalancata sulla natura della vera preghiera. Essa ci insegna che non possiamo presentarci davanti a Dio pensando solo a noi stessi, alla nostra salvezza individuale o a quella del nostro piccolo gruppo. Mosè, rifiutando l'offerta divina, prefigura Colui che è il Mediatore per eccellenza: Gesù Cristo. Egli, il "Figlio dell'Uomo", si è identificato totalmente con l'umanità (cfr. Giovanni 1:14), assumendone la fragilità e il peccato. Come afferma il Concilio Vaticano II, «con l'incarnazione il Figlio di Dio si è unito in certo modo ad ogni uomo» (Gaudium et Spes, 22).

La nostra preghiera, allora, non è mai un atto isolato. Come insegnava Dietrich Bonhoeffer nel suo testo "Vita Comune", anche quando preghiamo da soli, lo facciamo come membra del Corpo di Cristo, portando davanti a Dio le gioie e le angosce dell'intera comunità umana. Anzi, la nostra preghiera si innesta sull'intercessione stessa di Cristo, che abbraccia ogni tempo, ogni luogo, ogni creatura (cfr. Rom 8,19-22 sulla creazione che geme).

Pregare "Venga il tuo Regno" (Mt 6,10) non è una formula astratta, ma l'assunzione di una responsabilità attiva per la pace, la giustizia e la riconciliazione nel mondo. Significa riconoscere che il desiderio di un mondo migliore, inscritto nel cuore di ognuno, può trovare compimento solo nell'azione congiunta di Dio e di un'umanità che si fa sua collaboratrice, a partire dalla preghiera che si fa carico del fratello e della sorella, vicini e lontani.

In tempi difficili, la tentazione è quella di costruire nuovi vitelli d'oro o di ritirarsi in una preghiera intimistica. La vicenda di Es 32 ci scuote e ci rilancia: ci invita a smascherare i nostri idoli, a riscoprire la potenza di una preghiera audace e solidale, e a fondare la nostra Speranza non sulle nostre capacità, ma sulla Misericordia di un Dio il cui cuore si lascia "intenerire" e che attende la nostra voce per continuare a tessere la sua storia d'amore con il mondo.

Francesco, un uomo nuovo

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Guardare a noi stessi seguendo l'esempio di San Francesco

Pensare a San Francesco come ad un rivoluzionario è facile:

  • Francesco, giovane, ricco e borghese, avviato a carriera militare, con traguardo il cavalierato, dona tutto il suo corredo bellico ad un povero facendo a cambio con i suoi logori vestiti: Francesco no war, pacifista;
  • Francesco, giovane, ricco e borghese, distribuisce tutti suoi averi ai poveri per vivere come loro e assieme a loro: Francesco no global, pauperista;
  • Francesco, giovane, ex ricco e borghese, si reca nei lussuosi palazzi papali, affronta i ricchi e potenti cardinali e turba i sogni al Papa: Francesco, Cristo sì, Chiesa no, anticlericale.

E sono tante altre le immagini di Francesco d’Assisi che fanno sì che lo si ritragga come un contestatore sovversivo. In realtà Francesco lo abbiamo “tirato per la giacca” in tante maniere. Lo si è visto come uno spirito libero, precursore della Riforma protestante e delle rivoluzioni sociali, e si è creata allora la “questione francescana”; c’è chi riesce a vedere in Francesco restauratore, un controrivoluzionario, perché ripristina la struttura della Chiesa che rischia una rovinosa caduta (pensiamo al sogno di Papa Innocenzo III con “Francesco che sostiene la chiesa del Laterano”).

Francesco d’Assisi è stato certamente capace di compiere una rivoluzione ma non proprio come un rivoluzionario. Vediamo perché. Innanzitutto la sua azione non è mai stata di contrapposizione verso alcuno: non si è contrapposto alla Chiesa del suo tempo, né al sultano, né al frate che aveva peccato quanto era possibile peccare. Francesco viveva in un tempo dove era pressante il bisogno di un cambiamento (quindi, non è una novità) e ha saputo trovare l’innesco giusto per avviare una vera e propria trasformazione della società e della Chiesa, partendo da se stesso.

Che cosa ha innescato il cambiamento in Francesco? Già da tempo era alla ricerca di Dio e quindi anche di ciò che dà senso alla vita. Francesco, a seguito del fallimento delle sue ambizioni mondane, aveva inizialmente solo intuito un richiamo interiore a cercare Dio. Ma è dopo una di queste intuizioni che supplichevole giunge a chiedere: «Signore, che cosa vuoi che io faccia?». La risposta a quella domanda, che corrisponde al desiderio di tutti di trovare il bandolo della matassa della vita, Francesco d’Assisi la trovò solo in seguito ad un gesto clamoroso: l’abbraccio ad un lebbroso.

Se vogliamo credere all’esperienza di san Francesco dobbiamo comprendere che il cambiamento che desideriamo può avvenire solo se abbiamo - individualmente e tutti assieme - il coraggio di fare un passo avanti, se invece di erigere muri apriamo brecce.

L’abbraccio al lebbroso è quel gesto che rompe il cerchio che ci opprime quella mossa che ci fa uscire dalla quella spirale che ci inviluppa.

Il Signore parlò a Francesco e si diradarono le tenebre del suo cuore solo dopo che vinse se stesso compiendo quello che più lo ripugnava, abbracciare il lebbroso. È così che per lui si aprirono spazi