- a calendario:
OFF
- In Bacheca:
ON
- Giorno:
XXXI Domenica del Tempo Ordinario (anno A)
(Mt 23,1-12)
Dopo le diatribe di Gesù con i suoi avversari, che hanno occupato le due domeniche precedenti, il vangelo di questa XXXI domenica del tempo ordinario ci presenta, con i primi dodici versetti del capitolo 23 di Matteo, l’inizio del quinto e ultimo grande discorso di Gesù riportato da questo evangelista.
Pur senza entrare nei dettagli, bisogna dire che se i singoli detti raccolti in questo capitolo sono senz’altro attribuibili a Gesù, la loro disposizione in unità tematica è opera redazionale di Matteo. Questo non deve stupire, è normale che l’evangelista abbia voluto preparare un insegnamento da impartire alla sua chiesa in Antiochia di Siria negli anni 80, travagliata dalla difficoltosa rottura con il giudaismo, ma anche da un fariseismo strisciante e subdolo, infiltratosi tra i credenti. Per questa ragione sono contenute una serie di invettive contro scribi e farisei, pur rivolgendosi, Gesù, alle folle e ai discepoli. Possiamo dire che Matteo si rivolge alla sua chiesa, ma Gesù ora si rivolge a noi mettendoci in guardia circa il rischio di fariseismo. L’intenzione di questo testo è duplice: bollare la sinagoga del tempo con il marchio dell’ipocrisia; fare opera costruttiva della comunità, chiamata a una fedeltà di vita senza confronti con il passato.
Nella prima invettiva viene nominata la «cattedra di Mosè» dove si sono seduti scribi e farisei. Nelle sinagoghe vi erano dei particolari seggi d’onore in pietra riservati ai dottori della Legge. Il riferimento alla «cattedra di Mosè» è comunque una metafora, non necessariamente indica quel preciso seggio, ma allude all’autorità didattica e direttiva degli scribi e dei farisei nella comunità giudaica.
Gesù dice: «Praticate e osservate tutto ciò che vi dicono». In questo modo sembrerebbe riconoscere il valore del loro insegnamento. Questo è un po’ strano perché molte altre volte Gesù contesta quello che dicono scribi e farisei. Prosegue: «ma non agite secondo le loro opere, perché essi dicono e non fanno». Allora Gesù rimprovera gli scribi e i farisei per il loro “dire e non fare”, di insegnare (a volte) correttamente senza avere una prassi corrispondente.
Seguono altre tre accuse di Gesù:
- Pretendere dagli altri quello che loro stessi non fanno: «Legano infatti fardelli pesanti e difficili da portare e li pongono sulle spalle della gente, ma essi non vogliono muoverli neppure con un dito». Gesù aveva avuto pietà per le vittime dei numerosi precetti (al limite dell’impossibilità): «Venite a me, voi tutti che siete stanchi e oppressi, e io vi darò ristoro» (Mt 11,28).
- La simulazione o l’esibizionismo religioso. Gesù non condanna espressamente tali usanze ma solo lo spirito di ostentazione con cui venivano praticate; il rischio di praticare un’osservanza anziché l’obbedienza è presente anche oggi in molte pratiche devozionali.
- L’abitudine di farsi chiamare rabbì (lett.: mio grande), la popolarità cercata, gli onori ambiti. È interessante che se negli altri vangeli Gesù è da molti chiamato rabbì o rabbunì, nel vangelo di Matteo questo avviene solo da parte di un solo discepolo: il traditore.
Il brano prosegue con le parole di Gesù: «Ma voi non fatevi chiamare rabbì». Questo titolo, come quello di “padre” e “dottore” è impedito nella comunità del Messia per due motivi convergenti: l’unica autorità di insegnamento del Messia, e la nostra comune condizione di fraternità («voi siete tutti fratelli»).
Possiamo allora comprendere il detto conclusivo: «Chi tra voi è più grande, sarà vostro servo; chi invece si esalterà, sarà umiliato e chi si umilierà sarà esaltato». Gesù desidera aiutarci a uscire da ogni nostra ipocrisia. D’altra parte, se ci pensiamo, è normale che la persona più grande si prenda cura del più piccolo, come un adulto di un bambino.
- a calendario:
OFF
- In Bacheca:
ON
- Giorno:
XXVIII Domenica del Tempo Ordinario (anno A)
(Mt 22,1-14)
Per avere le giuste chiavi di lettura di questo brano di Vangelo abbiamo bisogno di ricordare le parabole che lo precedono nello stesso testo di Matteo e che abbiamo ascoltato le due domeniche scorse: la prima è la parabola dei due figli chiamati dal padre a lavorare nella vigna, dei quali il primo dice subito sì ma poi non ci va e il secondo dice no ma poi ci ripensa e ci va; la seconda è la parabola dei vignaioli omicidi che si rifiutano di dare il raccolto al padrone e anzi maltrattano e uccidono prima i servi e poi il figlio dello stesso padrone. Quindi un tema che ricorre da qualche domenica è quello del rifiuto, tuttavia il testo che stiamo prendendo in considerazione incomincia precisando che Gesù «riprese a parlare» (sempre rivolgendosi ai capi dei sacerdoti e agli anziani del popolo, cfr. Mt 21,23). Dicendo riprese si deve intendere che introduce qui un nuovo argomento: «il regno dei cieli». Gesù, con questa parabola, sta illustrando un aspetto dell’intervento ultimo di Dio sull’umanità paragonandolo ad un re che organizza un banchetto di nozze per il figlio.
La parabola.
Un re «mandò i suoi servi a chiamare gli invitati». Gli invitati sono i chiamati, potremmo leggere che questo re manda i suoi servi a chiamare i chiamati (καλέσαι τοὺς κεκλημένους). La chiamata - la vocazione - è un tema tipico di Matteo ed è ripetuta più volte, come anche tre domeniche fa con la ripetuta chiamata a lavorare nella vigna, fino agli operai dell’ultima ora. Sappiamo anche che questa chiamata è rivolta a tutti: «cattivi e buoni». Questa chiamata “universale” ricorda un po’ l’immagine della pesca miracolosa, fatta da pescatori che diventeranno poi “pescatori di uomini”. Ma a questa premurosa chiamata la risposta è un no deciso.
Alla prima, infruttuosa chiamata, ne segue un’altra che ha esiti anche peggiori: infatti se alcuni chiamati rispondono negativamente facendo capire che hanno impegni e affari più importanti che partecipare a quel banchetto, altri arrivano agli insulti e perfino all’uccisione dei servi. Possiamo facilmente vedere in questi due gruppi di servi tra i primi la rappresentazione dei profeti, trattati con sufficienza dai loro contemporanei; nel gruppo dei secondi servi inviati, riconosciamo gli apostoli, i discepoli del Signore e, forse, anche noi. L’assurdo di questi rifiuti è che il re non chiedeva niente altro che la partecipazione ad un banchetto, gratis!
Allora il re si indignò: mandò le sue truppe, fece uccidere quegli assassini e diede alle fiamme la loro città». Il re non si limita all’uccisione dei colpevoli ma distrugge e incendia la loro città. Questo comportamento del re un po' contrastante con la magnanimità di prima, è da leggersi come un tentativo che Matteo fa di compiere una lettura teologica della storia. Questo versetto (7) è una interpretazione che Matteo fa circa i fatti avvenuti nel 70 d.C. quando Gerusalemme e il Tempio furono rasi al suolo e dati alle fiamme dall’esercito romano.
«Poi disse ai suoi servi - La festa di nozze è pronta, ma gli invitati non erano degni; andate ora ai crocicchi delle strade e tutti quelli che troverete, chiamateli alle nozze». Al re stanno a cuore le nozze e il suo banchetto e quei posti vuole riempirli. La forma verbale che è usata qui per dire di chiamare quelli che si trovano ai crocicchi delle strade è un imperativo che ordina un’azione.
È utile notare come la medesima parabola inserita nel vangelo di Luca (Lc 14,16-24) descriva i destinatari di questa nuova chiamata come «i poveri, gli storpi, i ciechi e gli zoppi», mentre per Matteo sono raccolti «tutti quelli che troverete», e i servi poi radunarono tutti «cattivi e buoni». Il verbo radunare è synàgò da cui synagógè, sinagoga, assemblea liturgica. Sono le nostre messe, le nostre liturgie ma è anche la Chiesa stessa nella quale sono raccolti tutti e tutti dovrebbero trovare accoglienza, luogo di ristoro, di festa, di amicizia e gioia… dovrebbero.
Dal versetto 11 troviamo, molto probabilmente un’altra parabola attaccata alla precedente (infatti in Luca non si trova). Sembra che il re, qui cambi completamente modo d’essere, pare in contraddizione con la generosità mostrata sopra. Il re entra nella sala da pranzo per vedere che tutto sia a posto ma scorge un commensale che non indossava l’abito nuziale. Non si può evitare un certo sconcerto di fronte a questa “mancanza” di quest’uomo, nel senso che ci si domanda quale abito di festa poteva indossare un tizio raccolto lungo la strada! Evidentemente non si tratta qui di un abito come lo intendiamo noi, lo si può capire anche dal fatto che la mancanza di esso non era stata notata dei servitori ma solo da uno sguardo più “penetrante” del re. Questa svista dei servitori e questo notare da parte del Re fa pensare ad un commensale che pensava di essere idoneo solo per una forma esteriore. L’evangelista Matteo doveva avere presente delle situazioni concrete, presenti nella propria comunità, di chi si sentiva sicuro del proprio posto al banchetto per dei diritti acquisiti e per una forma rispettata. L’accesso al banchetto non è un diritto ma sempre e solo un dono, l’abito nuziale è quello dell’umiltà e della carità, un abito non ostentato ma che Dio sa riconoscere e per questo aprirà le porte del suo banchetto.