Less is more - La semplicità è importante
fr. Maggiorino
La pericope evangelica della 30° domenica del tempo ordinario (anno A) presenta la terza diatriba di Gesù contenuta nel capitolo ventiduesimo del Vangelo di Matteo (cfr. Rendete a Dio quello che è di Dio). Omessa la diatriba con i sadducei, sulla questione della risurrezione dei morti, tornano i farisei, gli esponenti ufficiali del giudaismo, a proporre un’altra spinosa questione a Gesù. Un loro inviato, un dottore della Legge, pone un quesito tipico nelle discussioni tra esperti della Legge: «Maestro, nella Legge, qual è il grande comandamento?». Ossia, esiste, tra i 613 precetti contati dai rabbini, un comandamento che sia più grande? La questione non era nuova; in una particolare corrente farisaica (che si rifaceva alla scuola del rabbino Hillel), si ammetteva la possibilità di una gerarchia dei precetti, in pesanti e leggeri, ma anche la possibilità di riassumere tutto il contenuto della Torà in un unico principio («Tutto quanto volete che gli uomini facciano a voi, anche voi fatelo a loro: questa infatti è la Legge e i Profeti», Mt 7,12 - La regola d’oro).
Anche in questa disputa, gli avversari di Gesù usano il consueto metodo della discussione tra maestri e maestri (e maestri e discepoli) per mettere in difficoltà Gesù. Ma a differenza di domenica scorsa, dove si diceva che i farisei (con gli erodiani) cercavano di cogliere in fallo Gesù, cioè di tendergli un trabocchetto, ora il desiderio del dottore della Legge è di mettere alla prova. Il verbo utilizzato, peirázo è quello utilizzato da Matteo nell’episodio delle tentazioni di Gesù (cfr. 4,1), ha un duplice significato: “mettere alla prova, saggiare” e “far deviare dalla retta via”.
La risposta di Gesù è rapida, citando il testo di Dt 6,5, ribadisce il precetto dell’amore verso Dio imposto ad Israele nell’Antico Testamento. Si tratta di un amore che non si esaurisce nell’adempimento delle esigenze esterne del culto (non basta andare a messa e “dire” le preghiere, osservare i precetti), ma coinvolge la parte più interna dell’uomo: cuore… anima… mente. Questo precetto fondamentale della religione ebraica veniva ricordato all’israelita nella preghiera che essi recitavano almeno 2 volte al giorno e chiamano lo Shema’. Gesù esplicita: «Questo è il grande e primo comandamento», vale a dire che senza di esso gli altri non avrebbero senso né efficacia.
Al primo comandamento Gesù unisce un «secondo» citando ancora l’Antico Testamento nel libro del Levitico: «Non ti vendicherai e non serberai rancore contro i figli del tuo popolo, ma amerai il tuo prossimo come te stesso» (Lv 19,18). Affermando che il comandamento dell’amore per il prossimo è «simile» al quello dell’amore per Dio, Gesù pone una congruenza, una specie di specularità tra i due precetti. L’aggettivo «simile» («homoía») indica sostanza identica. L’originalità nella risposta di Gesù consiste proprio nella combinazione di questi due precetti già conosciuti ma mai messi in correlazione. L’amore di Dio e l’amore del prossimo non sono la stessa cosa ma hanno lo stesso peso, formano un’unità integrale.
La risposta di Gesù, al quesito del dottore della Legge, non ha lo scopo di semplificare la casistica delle norme giudaiche, ma quello di radicalizzare la Legge escludendo l’obbedienza alla legge per la legge, per un porsi davanti a Dio stesso. Il verbo “dipendere” («kremánnymi») - «Da questi due comandamenti dipendono tutta la Legge e i Profeti» - evoca l’immagine di un gancio o di un cardine. Il termine greco si traduce letteralmente con “pendere”, è usato anche per indicare chi è appeso ad una croce, restituisce l’idea di una massa voluminosa sospesa in aria mediante due corde o tiranti e su cui ruota tutta la rivelazione biblica.
L’Amore non fa venir meno l’obbedienza ma la rende filiale, così come non rende meno impegnativa la relazione con Dio e con il prossimo ma la fa diventare uno spazio di libertà. Perché l’amore non lo si esegue, lo si vive. L'Amore è semplice (Vs. complicato).