Rendete a Dio quello che è di Dio (Mt 22,15-21)
fr. Maggiorino
Il brano di vangelo che la liturgia ci offre nella 29° domenica del tempo ordinario (anno A) è la seconda delle cinque controversie tra Gesù e i suoi avversari, appartenenti a vari gruppi religioso-politici, contenute nel vangelo secondo Matteo. La prima diatriba è quella che si trova al capitolo 21, versetti 23-27, è con i capi dei sacerdoti e gli anziani del popolo, riguarda l’autorità di Gesù. Dopo una serie di parabole che abbiamo ascoltato le domeniche precedenti, nel capitolo 22 troviamo altre quattro diatribe: questa (vv. 15-22) con i farisei e gli erodiani, riguardante il tributo a Cesare; con i sadducei (vv. 23-33) circa la risurrezione; con i dottori della Legge (vv. 34-40), sul grande comandamento; infine di nuovo con i farisei (vv. 41-46), sul figlio di Davide. Tutte queste discussioni scaturiscono da quesiti riguardanti l’interpretazione delle Scritture.
Nella tradizione giudaica, l'apprendimento della Torah, la Legge, avviene attraverso il confronto e la discussione tra studenti e maestri. È un processo collettivo, non si legge la Torah in silenzio, ma ci si confronta attivamente. Gli studenti fanno domande e sollevano questioni. Dunque, quando i farisei si rivolgono a Gesù, lo fanno come farebbero con qualsiasi altro rabbino, chiedendo il suo parere su una questione legata alla Legge di Dio. Tuttavia, in questa situazione, i farisei hanno un obiettivo nascosto: cercano di incastrare Gesù con una domanda trabocchetto, fingendo di essere lusingati dalla sua conoscenza. Gesù percepisce immediatamente la loro malizia e capisce che non sono interessati alla verità, ma vogliono tendergli una trappola. Questo atteggiamento è purtroppo comune nelle discussioni in cui si cerca di prevalere sull'altro piuttosto che cercare la verità insieme.
L’accostamento di farisei e erodiani è una strana associazione per il fatto che questi due gruppi non si trovano in accordo sulla questione che pongono a Gesù. I farisei, erano caratterizzati dall’osservanza intransigente della Legge e sentivano come un autentico problema di coscienza dover maneggiare le monete romane che recavano l’effigie dell’imperatore con l’iscrizione “Tiberio Cesare, Augusto figlio del divino Augusto”; questi elementi che attribuivano all’impertatore una connotazione divina erano, in modo evidente, contro ogni divieto di idolatria. Da parte dei farisei, quindi, l’obbligo del tributo romano era considerato un’umiliazione religiosa. Gli erodiani, come dice il nome stesso, erano legati alla famiglia di Erode Antipa, regnante con il consenso dei Romani, vedevano quindi favorevole il buon rapporto con gli occupanti e quindi anche normale pagare le tasse senza nessuno scrupolo religioso.
Un altro gruppo, non citato nel vangelo ma importante per la comprensione dell’episodio, era quello degli zeloti, gli uomini del pugnale, che avevano un approccio di difesa fanatica verso i romani e che per difendere le tradizioni giudaiche non esitavano intraprendere sanguinose rivolte armate contro l’invasore. Sembra quindi che Gesù se non si fosse messo dalla parte o dei farisei o degli erodiani si sarebbe implicitamente dichiarato tra gli zeloti e così facilmente accusabile di sobillazione antiromana. Comunque avesse risposto Gesù si sarebbe esposto a strumentalizzazione.
Gesù comprende il tranello ed è consapevole delle conseguenze di una risposta. Ma accetta la sfida, volendo dare con l’occasione un insegnamento che resti per sempre. Prima smaschera l’ipocrisia dei suoi interlocutori («Ipocriti, perché volete mettermi alla prova?») che si mascherano dietro alla copertura di scrupoli religiosi, poi chiede di vedere la moneta del tributo, questa era la moneta corrente, il denaro romano della zecca di Roma. Il diritto di coniare monete era un atto di sovranità, ed era gelosamente custodito dalle autorità romane. A questo punto Gesù dà la celebre risposta che letteralmente si tradurrebbe così: «Restituite dunque quanto è di Cesare a Cesare, e quanto è di Dio a Dio». Termini principali sono: «restituire» (apodìdómì) e «quanto è» (tà). Quindi Gesù indica una specie di restituzione. L’imperatore conia le monete con la propria testa stampata sopra, quindi è roba sua: voi la usate e con le tasse gliela restituite. Gesù rigetta la posizione degli zeloti senza accettare quella degli erodiani. La moneta fornisce la risposta alla domanda: appartiene a Cesare e Cesare ha il diritto di richiederla. Il pagamento delle tasse a Cesare non rappresenta un atto religioso, né implica rinunciare al culto a Dio o alle speranze messe in atto dal Messia. È semplicemente una questione amministrativa, che non dovrebbe essere fraintesa come qualcosa di diverso se non fosse per l'interpretazione distorta di alcuni agitatori politici.
Ora, però, Gesù porta il discorso su un livello molto più alto, quello del potere di Dio. Se Cesare ha creato la sua moneta, il Signore ha creato l’uomo, la sua «icona», a immagine e somiglianza di sé. Il Signore è sovrano, «sopra tutti gli dei» falsi, come lo sono i Cesari di tutte le epoche. Dio, con la sua regalità, non entra in concorrenza con il “piccolo potere” di Cesare.
Molte volte questa sentenza di Gesù viene utilizzata per giustificare la distinzione tra "stato" e "chiesa" o tra ambito "politico" e quello "religioso". Questa è però una lettura riduttiva e anacronistica, innanzitutto perché Dio non è la chiesa e Cesare, nella concezione dell’impero romano, non corrisponde allo stato moderno. Quello che compie Gesù è circoscrivere l’ambito del potere politico togliendogli la maschera della sacralità idolatrica, restituendogli la sua “laicità” profana. Chi sta soggetto a Cesare deve sapere che Cesare non è autonomo, né autocrate, non pone leggi da sé, né si dà il potere da sé; se lo fa è un tiranno. Deve tener conto di Dio e degli uomini; se non lo fa, ne deve rendere conto a Dio, Gesù lo rinfaccerà a Pilato in Gv 19,11 (cfr. Lettera di San Francesco ai reggitori di popoli).
I discepoli di Gesù e i credenti di oggi che si trovano a vivere in un contesto di stato “laico” non solo possono, ma debbono pagare il loro tributo a Cesare senza svendere la propria coscienza. Il rimando alle esigenze di Dio, incomparabili con quelle pur giuste di “Cesare”, non può essere un alibi per il disimpegno civile. Anzi l’appello alla coscienza religiosa è uno sprone a un più radicale adempimento dei propri doveri civici.